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FILANTROPIA

tra carità e giustizia

PREMESSA

La filantropia è diventata di moda nel sistema neoliberale… per capire, quindi, cos’è, la sua vera natura, il peso che ha nei rapporti economico-sociali, quali sono i suoi meriti e demeriti… è necessario guardare dentro il sistema economico capitalista. Oggi, infatti, v’è una nuova concezione definita filantrocapitalismo.

La filantropia vuol essere la faccia buona del capitalismo, ne fa il suo volto pulito, che giustifica le sue scelte fondamentali, anche quelle della più assurda sperequazione sociale, l’impressionante ingiustizia che genera. Si presenta come l’aspetto umano che ne corregge le conseguenze disastrose, difendendo la sua necessità indispensabile per il “bene comune” (sic!).

Non per niente, infatti, il paese dove è più diffusa la filantropia, gli USA, è anche il paese dove la sperequazione sociale raggiunge livelli tra i più alti del mondo.

La filantropia, nella concezione capitalista, esclude ogni senso di giustizia.

La giustizia, evidentemente, pone un punto interrogativo pesante sulle fonti di queste enormi ricchezze, di come siano state possibili, come si sono realizzate e quale può essere il “vantaggio” per le moltitudini dei comuni mortali… Nella filantropia la giustizia è “superata” dalla carità, la carità dei ricchi e del potere economico dei pochi.

La filantropia, quindi, appartiene, al massimo, alla sfera della carità.

Tra filantropia e giustizia non v’è alcun legame oggettivo e, così dovrebbe essere, neppure dipendenza.

Chi “fa” filantropia non si sente legato ad alcun obbligo né legge e la esercita in piena libertà, secondo i propri “sentimenti” ma, soprattutto, secondo calcoli economico-politici.

Chi la riceve sa che non ha alcun diritto e quindi raccoglie quella “moneta” con un duplice obbligo morale:

      non calcolare il dono secondo le proprie necessità

      accoglierlo, soprattutto, con la massima gratitudine per aver ricevuto ciò di cui non aveva alcun diritto.

La giustizia è un obbligo di coscienza (e di legge) per chi la deve praticare e, per il destinatario, è un diritto da rivendicare.

Per sé la filantropia è fuori dalla spesa pubblica e non esiste né nei contratti né nei programmi di rivendicazione sociale.

V’è pure un “rito” del sistema economico-politico che tiene fisso il fine del dominio del denaro e tenta di modificare le “coscienze” a seconda dei momenti storici e delle situazioni sociali, senza però mettere in discussione la supremazia del denaro.

In questo senso la coscienza o, meglio, il modo di percepire e sentire il dovere per il sistema capitalista, si modifica al di là di ogni ragione, che viene oscurata di volta in volta.

La filantropia capitalista ha proprio questo fine: modificare i suoi comportamenti (donazioni più o meno ricche, finalità specifiche e particolari, situazioni politiche e strategie di potere…) a seconda del momento storico-sociale in cui agisce il sistema.

Linsey McGoey si interroga sull’efficacia e efficienza dell’attuale filantropia (non molto diversa da quella del passato), soprattutto nell’ottica del filantrocapitalismo, rendendo evidente che la filantropia non viene esercitata secondo i bisogni e le necessità dell’uguaglianza – un diritto che è di tutti, al di là di ogni cultura, fede, geografia… – ma solo secondo la “bontà” (leggi “interessi”) dei padroni del denaro.

È DAVVERO EFFICIENTE LA FILANTROPIA? [1]

In uno dei suoi racconti brevi, La moneta falsa, Charles Baudelaire descrive un incontro immaginario tra due amici che si incrociano per la strada con un mendicante.

Entrambi gli danno l’elemosina, però la moneta che lascia cadere l’amico è molto più preziosa. Il narratore elogia la sua generosità e il suo compagno gradisce il complimento, però poi, lontano dal mendicante, aggiunge: «Era una moneta falsa».

Il narratore rimane sbalordito. Non soltanto perché il suo amico ha ingannato il mendicante, ma per la soddisfazione di apparire generoso. La soddisfazione deriva dal fatto che il mendicante non si rende conto di essere stato ingannato. Il narratore vede che «aveva voluto fare, ad un tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e il cuore di Dio; pigliarsi senza spesa la fama d’uomo caritatevole».

Baudelaire scrisse questa storia nella seconda metà del XIX secolo, quando industriali come Andrew Carnegie e John Rockefeller cominciavano a investire le loro grandi fortune nelle maggiori azioni di filantropia mai viste. Dalle donazioni di Carnegie a biblioteche pubbliche sino agli investimenti di Rockefeller in ricerche biomediche, entrambi cambiarono il modo di fare carità, che passò da donazioni poco sistematiche a un ingranaggio che era già una forma di affare in se stesso, controllato da consulenti pagati.

Molti, tuttavia, non si sentivano riconoscenti per la generosità di questi robber barons (baroni ladri). Nel suo saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo, Oscar Wilde criticò la tendenza dei benefattori di usare la carità come copertura dinanzi alle richieste di una giusta redistribuzione della ricchezza.

«I migliori tra i poveri – scrisse Wilde – non sono mai riconoscenti [ai benefattori]. Sono scontenti, ingrati, disobbedienti e ribelli, e hanno ragione di esserlo. […] Perché dovrebbero essere grati delle briciole che cadono dalla mensa del ricco? Dovrebbero esser seduti intorno al tavolo con gli altri commensali condividendo la festa!».

Ora che la filantropia entra in una seconda epoca d’oro, con donazioni di benefattori come Bill Gates e Warren Buffett che competono con le elargizioni fatte verso la fine della precedente età d’oro, gli scettici cominciano a chiedersi se le preoccupazioni di Wilde e Baudelaire siano ancora attuali.

I filantropi di oggi stanno coscientemente distribuendo “monete false”? Stanno cercando di “conquistarsi senza sforzi la fama d’uomo caritatevole”?

Nella maggioranza dei casi non è così. Le donazioni vengono realizzate in buona fede, con empatia verso visini o lontani sconosciuti. Sta però affermandosi una nuova tendenza: il filantrocapitalismo, che cerca di combinare il guadagno con la riduzione della povertà. Dietro a questa nuova filantropia c'è il tentativo di fare una buona azione e, allo stesso tempo, realizzare un buon affare. E' ancora valido l'interrogativo che si pose Baudelaire: Chi trae più vantaggio dagli aiuti di carità, il donatore o il destinatario?


Misurazione dei risultati

Nell’avanguardia della nuova filantropia si trova il movimento dell’“altruismo efficiente”, che si presenta come se il suo criterio fosse molto diverso dalle filantropie precedenti e pone l’accento nella misurazione dei risultati.

Un pioniere è Peter Singer, discusso bioetico che ha elogiato Buffett e Gates come “gli altruisti più efficienti della storia”.

La sua lode si basa più sulla grandezza di quanto hanno dato che sulla prova dell’efficienza. […]

Sino ad ora c’è stata molta più pubblicità che certezza dei risultati raggiunti dall’altruismo efficiente; il suo progresso spesso sembra esser misurato e determinato da circuiti che si autoregolano. I donatori privilegiano quello che i critici indicano come obiettivi a corto raggio: progetti nei quali è relativamente facile misurare gli effetti. […]

Gli entusiasti della filantropia di oggi non rimangono certo indietro nell’esagerare i risultati.

L’organizzatore di una recente conferenza dell’altruismo efficiente, svoltasi nel campus di Google in Mountain View, arrivò al punto di affermare che «l’altruismo efficiente potrebbe essere l’ultimo movimento sociale di cui abbiamo bisogno». Tuttavia è evidente che l’aumento globale delle donazioni negli ultimi dieci anni non è riuscito a ridurre le disuguaglianze economiche.

Il numero delle fondazioni filantropiche degli USA negli ultimi quindici anni si è duplicato, però neppure tale aumento ha aiutato ad alleviare la povertà estrema che, secondo un rapporto dell’Università di Michigan, si è ulteriormente aggravata.

Una delle più grandi ironie della filantropia del XIX secolo era la domanda se l’aumento della carità non aggravasse di fatto le disuguaglianze nel frustrare le richieste di miglioramenti salariali e il diritto a sindacalizzarsi.

Carnagie pubblicò il suo primo saggio sulla ricchezza, nel quale esortava i ricchi a condividere il loro bottino, solo pochi anni prima dello sciopero di Homestead del 1892, una delle più sanguinose rivolte di lavoratori della storia degli USA. Carnagie nel momento in cui combatteva e annientava i grandi sforzi sindacali in espansione, dispensava anche “generosi aiuti” ai suoi lavoratori.

«Paradossalmente – ha segnalato David Nasaw, biografo del filantropo – Carnagie divenne sempre più spietato nella ricerca di guadagni una volta che decise di distribuirne i benefici». «Nel sostenere che il milionario è l’unico a poter decidere dove destinare i suoi milioni e che quanto egli considera migliore è il meglio – aggiunge Nasaw – Carnagie promulgava una verità profondamente antidemocratica, quasi feudale, del suo paternalismo».

Gli altruisti efficienti insistono sul fatto che la filantropia privata è la via più adatta per migliorare la vita. «I filantrocapitalisti di oggi vedono un mondo pieno di grandi problemi che loro, e forse soltanto loro, possono e debbono risolvere» scrivono Matthew Bishop e Michael Green in “Filantrocapitalismo: come i ricchi possono cambiare il mondo”, la Bibbia dei nuovi filantropi.

Nonostante la continua insistenza di novità, di fatto la linea d’azione dei filantropi di oggi non è molto diversa da quella di Rockefeller e Carnegie, i quali insistevano nell’affermare quanto le loro donazioni fossero efficienti ed efficaci.

Come ai tempi di Carnegie, la filantropia in molte occasioni viene utilizzata come giustificazione per decisioni lesive per la maggioranza della popolazione.

«Ho donato 5 milioni di dollari per diverse cause. Ed ho una grande voglia di farlo sapere» scriveva su Twitter, alla metà di settembre 2015, Martin Shkreli, consigliere delegato dell’impresa farmaceutica Turing, criticata duramente per aver aumentato il prezzo del Darapim[2] di oltre il 5.000%.

Questo è un eccellente esempio di filantrocapitalismo in azione: l’uso della filantropia per sviare l’attenzione da pratiche commerciali che impediscono l’accesso a medicinali salvavita. Come all’epoca di Carnegie, molti non si lasciano abbindolare, non sono disposti a credere nella bontà di questi donatori.

 

LE CONTRADDIZIONI DELLA FILANTROPIA:

opportunità di progresso o ammortizzatore sociale?

La filantropia viene ritenuta in diversi settori della società essenziale nel contesto del XXI secolo.

I fautori ne difendono l’importanza e la necessità come argine agli effetti dell’attuale sistema capitalista “selvaggio”.

Molte, però, sono le voci contrarie.

Naturalmente, si afferma, è meglio la filantropia che le “stupidaggini” che la maggioranza fa con il proprio denaro, però questa non è la soluzione.

Le élites che donano lo fanno a sostegno delle proprie idee, credenze, interessi.

«La filantropia è – scrive Slavoj Zizek – il modo in cui il sistema conserva lo status quo. La sua funzione è nascondere l’origine del problema. Grazie alla beneficienza il capitalismo si può auto-assolvere. La beneficienza diviene parte integrante del sistema, la carità fa parte dell’ideologia generale di oggi».

 Invece di porsi interrogativi seri su cosa sta succedendo e cercare vie d’uscita che garantiscano il bene comune, si delegano le soluzioni al “buon cuore” di chi ha denaro. Si cade così in una colossale contraddizione: chi, essendo ricco e corresponsabile di generare condizioni di povertà a livello mondiale, pretende di esercitare la filantropia destinando parte delle proprie ricchezze ad opere umanitarie.

«La carità è – continua Slavoj Zizek – la maschera comunitaria che si nasconde dietro lo sfruttamento economico. Per me il modello insuperabile di ciò che io considero “carità falsa” continua ad essere Carnegie. Va bene, fece di tutto, costruì anche spazi culturali, per concerti, ecc… però assunse anche centinaia di detectives Pinkerton in Texas per piegare i lavoratori in sciopero e farla finita con i sindacati. Questo è per me il modello: prima colpisce brutalmente i lavoratori e poi… offre loro un concerto».

Peter Buffett, figlio di Warren Buffett e, come lui, uno dei più grandi filantropi statunitensi, – quindi non “sospettabile” di sentimenti antifilantropici – fa un’analisi interessante: «La carità dei ricchi ha creato una macchina di povertà eterna. […] Nelle riunioni dei grandi filantropi si possono vedere capi di Stato, operatori economici, direttori di grandi imprese, capi di corporations transnazionali… con la mano destra cercano soluzioni per risolvere problemi che i presenti nella sala hanno creato con la mano sinistra. […] Nella misura in cui la vita di un numero sempre più alto di individui e comunità viene distrutta da un sistema che crea enormi volumi di ricchezza per poche persone, si rafforza la filantropia come sistema per lavarsi la coscienza con la donazione di qualche briciola».

Di fatto, con una mano danno ciò che si sono presi con mezzi per lo meno “sospetti”, con lo sfruttamento dei lavoratori, la repressione antisindacale, pratiche monopolistiche, ecc…

Tra le valutazioni negative si denunciano, in particolare, alcune realtà che non sempre vengono prese in considerazione per la loro reale importanza e le conseguenze che ne derivano:

    la delega dell’etica al potere – di qualunque tipo esso sia

    la cooperazione/volontariato quando diventa marketing e business – per quanto piccoli possano essere

    la stessa guerra presentata come “filantropia universale” – si arriva a parlare, infatti, di “guerra umanitaria”.

L’incentivo alla carità/filantropia appare soprattutto come uno strumento per lasciare tutto com’è, per evitare cambiamenti strutturali: “è meglio aiutare i poveri, qualche povero, prima che si rivoltino contro di noi”.

La carità non arriva mai al nucleo del problema, nei casi migliori lo sfiora soltanto. Non si tratta di essere contro la carità, ma è necessario riconoscere l’ipocrisia di un sistema che, con una mano, “accumula e centralizza il capitale” e con l’altra “fa la carità per ridistribuire qualcosa”. Anche a livelli più bassi dei filantrocapitalisti, sembra non ci sia la minima idea dell’esistenza di una giustizia redistributiva.

È giusto e importante investire nella solidarietà, ma è necessario tener presente la necessità, l’obiettivo – per quanto a lungo termine sia – di modificare il sistema, altrimenti si rischia, coscientemente o no, di cadere nell’ipocrisia.

José Ignacio Fernández scrive: «Nel capitalismo carità e ipocrisia sono due pilastri essenziali per la sua sopravvivenza: permettono ai ricchi di nascondere l’esistenza di meccanismi sistemici che generano disuguaglianza e ingiustizia sociale. È un po’ il gioco delle maschere per nascondere il comportamento egoista e il furto sistematico».

I sostenitori della filantropia la difendono come garanzia della vera “sostenibilità” che consiste non nel limitarsi “a dare un pesce a chi ha fame, ma nell’insegnargli a pescare”.

La “legge della foresta” che “regola” i mercati, affermano, continuerà a creare bolle speculative che apriranno crisi ricorrenti… ed il capitalismo produrrà sempre vincitori e vinti, lasciando molta gente vulnerabile e in grandi difficoltà.

Se non si corregge qualcosa di queste disuguaglianze, i “vinti”, anche grazie alle nuove tecnologie di comunicazione, hanno la possibilità di “rovinare la festa” ai vincitori.

La filantropia è essenziale per la sopravvivenza dell’umanità perché i grandi filantropi sono gli unici che possono “pensare in grande”.

Niente e nessuno, infatti, può far fonte alla situazione attuale: gli Stati sono sempre più deboli, alla mercé dei poteri forti internazionali; le imprese si dibattono nella morsa di una concorrenza sempre più selvaggia, senza regole né ombra di etica; il cosiddetto Terzo Settore è spesso soffocato da un’onnipotente e onnipresente burocrazia, stretto nella necessità di disporre di fondi adeguati ai propri progetti; gli stessi organismi internazionali vedono penalizzati i loro aspetti positivi a causa di condizionamenti politici, economici, burocratici….

La soluzione non può che essere la filantropia.

Il filantrocapitalismo non è altro che applicare alla solidarietà e alla carità i meccanismi imprenditoriali che hanno permesso di accumulare ricchezze multimilionarie. Harry Browne scrive: «L’idea è geniale: fatti ricco nello stesso tempo in cui salvi il mondo!».

Stephan Ernest Schmidheiny è un imprenditore svizzero, condannato a 18 anni di carcere dalla Corte d'Appello di Torino per il disastro ambientale provocato dall’amianto negli stabilimenti Eternit in Italia e nei territori limitrofi, poi prosciolto in via definitiva per intervenuta prescrizione di reato e rimasto unico imputato nel processo Eternit-bis per l'ipotesi di reato di omicidio volontario di 258 persone.

In giro per il mondo, Schmidheiny è ben conosciuto e rispettato in quanto filantropo. Non solo, un’università americana gli ha dato una laurea honoris causa per il suo presunto impegno a favore dell’ambiente. In Italia l’hanno giudicato colpevole di disastro ambientale.

Slavoj Zizek (e molti altri) afferma che l’economia capitalistica attuale ingloba l’etica filantropica assumendola come proprio fondamento, un fondamento contraddetto dalle stesse logiche del capitale. Questo meccanismo perverso fa sì che, di fatto, si verifichi «una sovrapposizione tra etica e consumo: chi consuma può comprare, allo stesso tempo, un’azione etica. La redenzione del consumismo è nel consumo stesso».

La pubblicità che si fa delle grandi donazioni filantropiche aiuta a migliorare l’immagine della marca del donatore, associandola ad una percezione di impegno sociale. Queste imprese beneficiano di un vantaggio competitivo frutto di una loro migliore immagine pubblica che serve a nascondere aspetti negativi di ogni tipo.

La filantropia diventa così un’ottima arma di concorrenza, un ottimo strumento di pubblicità e marketing.

La filantropia serve al cambiamento sociale?

La “moda” della filantropia, sempre più diffusa, vive una vera e propria età d’oro… però, serve veramente per sanare le grandi ingiustizie e creare una maggiore uguaglianza tra popoli, culture, civiltà?

La filantropia, di fatto, conserva il sistema e non trasforma affatto, anzi li perpetua, i rapporti di forza in campo economico, politico, tecnologico, ecc…

Il fenomeno si è via via globalizzato e un numero sempre più alto di multimilionari, legati soprattutto al settore dell’alta tecnologia, afferma la volontà di “contribuire con il proprio granello di sabbia” a “migliorare il mondo”.

Lo strano (e probabilmente non lo è per niente) è il fatto che proprio mentre la filantropia offre più denaro che mai nel mondo, la disuguaglianza ha raggiunto i massimi livelli storici.

Il giornalista Pere Rusiñol scrive:

«L’età d’oro della filantropia è indiscutibile, però le maggiori quote storiche di fondi della filantropia coincidono con le maggiori quote di disuguaglianza della storia contemporanea. L’aumento delle elargizioni della filantropia e della disuguaglianza percorrono strade parallele».

Le donazioni filantropiche negli USA si sono triplicate nello stesso periodo in cui gli ultraricchi hanno triplicato anche la loro parte di torta.

Naturalmente ci sono ragioni precise ed evidenti, prima fra tutte l’enorme riduzione fiscale per le detrazioni delle donazioni filantropiche che ha aumentato all’ennesima potenza le risorse per la filantropia… e la disuguaglianza, anch’essa in continua crescita, è arrivata ai massimi livelli.

Ci sarebbe, ci si chiede, così tanta “generosità” se questa non influisse sul pagamento delle imposte?

Secondo calcoli dell’economista francese Thomas Piketty negli ultimi trent’anni il tasso effettivo delle imposte del 99% dei cittadini statunitensi è stato, praticamente, costante, mentre per i super-ricchi, in seguito alle detrazioni per “opere benefiche”, è passato dal 72 al 35%.

Lo stesso avviene per le grandi corporazioni con la diminuzione delle imposte per l’aumento della Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR – Corporate Social Responsability).

Uno studio del 2015, pubblicato sulla rivista statunitense Accounting Review sostiene che «CSR e imposte agiscono più come sostituzioni che come completamento», un fatto, a parere degli autori, positivo perché «pagare imposte riduce risorse imprenditoriali per progetti sociali», inoltre «le imprese sono più efficienti dei governi nell’assegnare le risorse».

L’economista francese Gabriel Zucman mette in guardia sul fatto che questa nuova età d’oro della filantropia, basata sulla riduzione delle imposte pagate dai ricchi e dalle imprese, «mina le fondamenta stesse del controllo sociale. Una società nella quale i ricchi decidono per proprio conto quante imposte pagare ed a quali servizi pubblici sono disposti a contribuire non è una società civile. Questo è ciò che succedeva nella società vittoriana del XIX secolo e non dovrebbe succedere nel XXI. Se i multimilionari sono liberi di contribuire alla società, perché debbono pagare imposte? L’atteggiamento di molti, in particolare in Silicon Valley, si riassume in: smetti di farmi pagare imposte e darò la mia ricchezza alle cause che ritengo valgano la pena».

Molte “cause che valgono la pena” hanno quasi sempre a che vedere con la fede assoluta nella tecnologia in grado di risolvere, per se stessa, i problemi dell’umanità.

Le fondazione dei filantrocapitalisti sono lo strumento più importante usato dal capitale per penetrare in settori strategici dove fare affari (salute, educazione, ambiente, comunicazione…).

Ricercatori inglesi e tedeschi sono molto critici circa il potere decisionale dei grandi filantropi in grado di imporre a entità pubbliche e organizzazioni internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità, Organizzazione Mondiale del Commercio, ONU, ecc…) sia l’agenda – i problemi che debbono essere presi in considerazione – sia la metodologia per affrontarli e gli obiettivi che ci si pongono, privilegiando le “soluzioni” idonee e congeniali alle transnazionali.

Questi milionari rappresentano un pericolo poiché possono imporre le loro priorità nel mondo, al margine di governi e del sistema democratico: la democrazia diventa una mera facciata al servizio del potere economico-finanziario.

La Fondazione Gates, ad esempio, finanzia campagne in campo sanitario, ma, attraverso intense campagne di lobby, difende anche la validità della proprietà intellettuale per assicurare ampi benefici ai suoi brevetti di software… I brevetti, però, colpiscono anche medicinali e sementi, condizionando pesantemente il diritto alla salute e all’alimentazione di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nei paesi più poveri.

La filantropia, infatti, è anche espressione delle lobby più potenti, in grado di condizionare ogni aspetto della vita, della politica, dell’economia…

Con il termine lobby si indica – come è noto - un certo numero di gruppi, organizzazioni, individui, legati tra loro dalla volontà di influenzare, a favore di un loro specifico profitto, le istituzioni legislative, politiche ed amministrative quando queste sono chiamate ad individuare un interesse generale ed a legiferare in merito ad esso.

Il contrasto tra lo specifico interesse delle lobby e quello dell’intera collettività viene spesso mascherato con una comunicazione ambigua, tesa a dimostrare che non esiste alcuna contraddizione, anzi l’intervento delle lobby è a favore di tutta la società.

Questo avviene perché una lobby, composta da un numero di soggetti relativamente ristretto, ha maggiore facilità, rispetto alla collettività, di organizzarsi per portare avanti una strategia di difesa dei propri interessi, riuscendo ad essere più efficace in termini di pressione sui canali di informazione e sui soggetti istituzionali (partiti, governo, Parlamento…).

Per il mondo della filantropia l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa è abituale: è indispensabile poter contare sull’informazione per far passare il proprio messaggio e portare a casa grandi profitti. Assistiamo così ad una “colonizzazione” dei mass-media – sia pubblici che privati – attraverso finanziamenti diretti o con l’imposizione di loro “pedine” per arrivare alle masse, diffondere il modello di società loro congeniale e ottenere legittimazione sociale.

Naturalmente, anche in questo campo c’è un uso perverso del linguaggio: cancellati termini riconducibili a diritti sociali, si parla di “necessità” a cui si risponde con azioni filantropiche. Diveniamo così sempre meno soggetti di diritto, e sempre più clienti di differenti classi sociali che accedono a servizi secondo il loro portafoglio: la dignità delle persone torna a dipendere dal livello economico o classe di appartenenza.

Non si parla di disuguaglianze sociali per non dare l’occasione di parlare delle cause strutturali che le originano; un’omissione intenzionale perché gli scenari di disuguaglianza sono indici positivi per la prosperità di certi affari.

Si parla insistentemente del carattere di innovazione sociale delle attività filantropiche, la cui prospettiva neoliberale viene camuffata nascondendo che la reale “innovazione” è il cambiamento di prospettiva mercantilistica nella pianificazione, disegno, esecuzione e valutazione dei loro progetti “sociali”.

Slavoj Zizek afferma: «La filantropia ha sostituito la politica».

La politica non è più un “affare comune”, è affidata a “professionisti” e rappresentanti, mentre il semplice cittadino deve limitarsi a preoccuparsi/occuparsi dei propri “affari privati”.

Nella privatizzazione “selvaggia”, a tutto campo, del sistema neoliberale, il “cittadino” diviene “insignificante”, non ha voce né spazio, non è ritenuto in grado di decidere cosa sia bene per lui – e tanto meno per la società – per cui ha l’obbligo di “scegliere” ciò che è stato scelto da altri per lui.

In Grecia la parola idiotes (uomo privato – che si occupa dei suoi affari –, da idios: proprio, personale) è il cittadino che, non avendo alcun peso pubblico, veniva ritenuto incompetente di interessarsi della polis. In contrapposizione c’era l’uomo colto, capace, preparato, competente che riveste cariche pubbliche, determinanti per la vita comune.

È questo il progetto (senz’altro vincente) del sistema neoliberale attuale: trasformare la maggior parte dell’umanità in “utili idioti” a vantaggio di chi, per la sua “competenza”, toglie libertà, democrazia, dignità, futuro…

Il giornalista statunitense David Rieff afferma: «Credere che solo con la filantropia si possa modificare l’ordine mondiale e fare giustizia è, a dir poco, ingenuo. La filantropia e il mondo degli affari non possono creare la strategia e porsi a capo della lotta contro la fame e la povertà. Questa battaglia deve essere in mano agli Sati, perché al di sotto delle situazioni di povertà si nascondono disuguaglianza, mancanza di democrazia e di libertà. Queste sono questioni politiche e debbono essere risolte con misure politiche non con la filantropia […] Gli Stati debbono essere più forti… per quanto grandi siano i loro limiti e problemi, preferisco che il mondo venga governato dai governi che dalle corporations».

 

Edmundo Fayanas Escuer, in un’analisi fra filantropia e disuguaglianza, fa alcune osservazioni interessanti che riassumiamo brevemente.

Nel XX secolo, all’interno del mondo capitalista c’erano due modelli:

    il modello anglosassone basato sul puro individualismo, la filantropia gioca un ruolo vitale, dal momento che lo Stato ha uno scarsissimo potere per redistribuire la ricchezza tra la popolazione; tutto ciò porta al culto della ricchezza e l’unico dio esistente e riconosciuto è il denaro;

    il modello europeo basato sullo Stato di Benessere. Il potere dello Stato è essenziale per una giustizia redistributiva attraverso leggi e misure organiche.

Attualmente praticamente il “modello europeo” si sta sempre più diluendo, fin quasi a scomparire, mentre il neoliberalismo impone come unico quello anglosassone, basato sull’individualismo e la competitività, dimenticando valori sociali, di solidarietà, di giustizia… in un percorso di sempre più vasta privatizzazione.

Il ruolo dello Stato è, di fatto, garantire la proprietà privata e lo status dei ricchi e potenti. Così l’esercito e la polizia sono essenziali in uno Sato neoliberale capitalista con una giustizia basata su leggi fatte da un potere pseudo-democratico. Ogni altra funzione statale ricopre un ruolo secondario.

Il sistema neoliberale non garantisce la minima equità e potenzia all’infinito la cosiddetta filantropia che consiste essenzialmente in palliativi per i disastri sociali provocati da pratiche imprenditoriali e dalla visione neoliberale nel suo complesso. È un modo per nascondere il saccheggio realizzato su ampi strati della popolazione portandoli alla miseria e alla mancanza di speranza per il futuro.

L’umanità non ha bisogno di filantropia, ma di un Welfare che le offra opportunità e crei giustizia.

Rhodes Diaves, responsabile del programma Giving Thought, della Charities Aid Foundation, chiede: «Come è possibile affrontare ingiustizia e disuguaglianze, quando la filantropia è possibile proprio come risultato della mancanza di equità?».

“Misericordia” non è sinonimo di giustizia: «La parola “misericordia” – afferma Nicolas Boullosa – è macchiata di sangue nelle Americhe, in Africa, in Asia, in Oceania».

Andando al di là di ideologie ed emozioni, se analizziamo a grandi linee il ruolo storico della filantropia, le sue conseguenze sociali, economiche e culturali, sembra che questa sia stata più una nemica che un’alleata di trasformazione dell’attuale sistema economico verso uno più giusto ed equilibrato: una società veramente sana, retta da un modello basato su giustizia ed equità, non avrebbe alcun bisogno di gesti filantropici.

Oscar Wilde diceva: «Il vero obiettivo deve esser quello di ricostruire la società in modo tale che la povertà sia impossibile».

La filantropia rientra nella logica di privatizzare gli interventi su effetti, sintomi, conseguenze che non colpiscono mai le cause perché queste sono originate dal sistema e ne perpetuano la priorità, prima tra tutto la demolizione del Welfare.

Certo lo Stato attuale si allontana sempre più da un reale Stato di diritto, rappresentativo dei diritti e interessi delle maggioranze, stretto com’è tra le spire soffocanti dell’economia e del potere finanziario internazionale… però il futuro della storia non può essere affidato a chi del sistema vive e che tale sistema ha creato e perpetuato: pure questo è un campo aperto da affrontare e per cui lottare.

Renato Piccini

 

 

 



[1] Linsey McGoey, “¿Es realmente eficiente la filantropía?”, Alternativas Economicas febbraio 2016

[2] Un medicinale di prima necessità usato contro gravi malattie infettive che colpiscono il sistema immunitario [ndt]